La tragedia della bomba atomica

E’ il 6 agosto 1945 ad Hiroshima, in Giappone. Sono le otto e quindici minuti; un ultimo giro di lancetta e gli orologi si fermano, a fissare per sempre l’ora dell’apocalisse giapponese e l’inizio dell’era atomica. In un solo istante la storia cambia, nasce una nuova epoca e con essa nuove paure. Per la prima volta la fine del mondo appare come un’ipotesi plausibile; l’uomo ha costruito armi che, se usate su larga scala, sono in grado di provocare la sua stessa estinzione.

Prima della bomba

Prima della bomba

Alle 8 e 15 e 17 secondi del 6 agosto si aprono gli sportelli del bombardiere; una volta che la bomba è stata sganciata, l’aereo, pesando molto meno, si alza verso l’alto. Il comandante Paul Tibbets ordina all’equipaggio di mettersi gli occhiali di protezione. “Little boy”, questo il nome che è stato dato alla bomba date le dimensioni ridotte dell’ordigno, impatta il suolo 43 secondi dopo. Una palla di fuoco appare a circa 600 metri di altezza e un calore insopportabile si diffonde per decine di chilometri. Nel punto dell’esplosione la temperatura nell’aria raggiunge molti milioni di gradi Celsius (contro la temperatura massima di 5000 gradi delle bombe convenzionali). Più di 100.000 persone muoiono quello stesso giorno, in conseguenza della deflagrazione. La città giapponese viene letteralmente livellata dall’esplosione; l’onda d’urto rade al suolo praticamente tutti gli edifici, ad eccezione di pochissimi, che diverranno poi simbolo del tragico evento.

Il Ground Zero

Tre giorni dopo un altro velivolo statunitense, non trovando un’apertura nelle nubi del suo obiettivo primario, la città di Kokura, si dirige verso il secondo obiettivo programmato, la città di Nagasaki, sulla quale sgancia una bomba analoga a quella di tre giorni prima. Anche a questa seconda è stato dato un nome: si chiama “Fat man”, per le sue dimensioni maggiori rispetto alla precedente. A causa della sua esplosione, il 9 agosto, a Nagasaki muoiono 74.000 persone. Sono quasi tutti civili; uomini, donne e moltissimi bambini.

Il fungo atomico

Le testimonianze degli Ibakusha 

In giapponese Ibakusha  significa letteralmente “persona esposta alla bomba”. La vita dei sopravvissuti della catastrofe atomica non è stata facile, costretta tra rimozione sociale, emarginazione, vergogna di essere stati in qualche modo “contaminati” e senso di colpa di essere rimasti vivi in mezzo a tanti morti.

C’è un elemento che accomuna tutte le testimonianze oculari delle esplosioni ed è il fatto che ciò che accadde superò ogni immaginazione e si fissò nella memoria di ciascuno come un ricordo incancellabile. Anche i dettagli spesso si somigliano: il cielo che si annerisce all’improvviso, l’insopportabile vampata di calore, e i particolari agghiaccianti della pelle che si stacca dal corpo, dei volti gonfi e tumefatti, degli occhi bianchi, degli edifici che crollano come fossero di cartapesta e di un sibilo continuo e insopportabile che perfora i timpani. L’odore di morte, simile allo zolfo, gli sbuffi di vapore che provengono dal terreno surriscaldato, lo stupore di essere vivi e la certezza che da quell’istante, la propria esistenza non sarebbe stata più la stessa.

Un ragazzo con il suo fratellino ustionato

Improvvisamente, nel cielo, al di sopra del fiume, vidi una massa d’aria straordinariamente trasparente che risaliva la corrente. Ebbi appena il tempo di gridare “Una tromba” che già un vento terribile ci colpì. I cespugli e gli alberi si misero a tremare; alcuni furono proiettati in aria da dove ricaddero come saette sul tetro caos. Si aveva l’impressione che il riflesso verde di un orribile inferno venisse a stendersi al di sopra della terra. (…) Dopo il passaggio della tromba, ben presto il crepuscolo invase il cielo. Incontrai mio fratello maggiore il cui viso era ricoperto come da una sottile pellicola di pittura grigia. Il dorso della sua camicia era ridotto a brandelli e scopriva una larga lesione che somigliava ad un colpo di sole. Risalendo con lui la stretta banchina che costeggia il fiume, alla ricerca di un traghetto, vidi una quantità di persone completamente sfigurate. Ve ne erano lungo tutto il fiume e le loro ombre si proiettavano nell’acqua. I loro visi erano così orrendamente gonfiati che appena si potevano distinguere gli uomini dalle donne. I loro occhi erano ridotti allo stato di fessure e le loro labbra erano colpite da forte infiammazione. Erano quasi tutti agonizzanti ed i loro corpi malati erano nudi. Quando passavamo vicino a questi gruppi, ci gridavano con voce dolce e debole “Dateci un po’ d’acqua”, “Soccorretemi, per favore”; quasi tutti avevano qualche cosa da chiederci. (…) Le persone morivano l’una dopo l’altra e nessuno veniva a portar via i cadaveri. Con l’aria sconvolta, i vivi erravano tra i corpi. Si videro allora tutte le rovine nelle strade principali. Uno spazio vuoto e grigio si estendeva sotto un cielo di piombo. Soltanto le strade, i ponti ed i bracci del fiume erano ancora riconoscibili. Nell’acqua galleggiavano cadaveri dilaniati, gonfiati. Era l’inferno divenuto realtà.(…) Tutto ciò che era umano, era stato cancellati (…). Ebbi l’impressione di non esser venuto sulla terra che dopo l’esplosione della bomba atomica. (Lettera da Hiroshima, di T. Hara)

dal  sito di Rai Educational, dove puoi trovare il testo completo.

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